Il 22 maggio del 1978 entrò in vigore la legge 194 che disciplinava la cosiddetta “interruzione volontaria della gravidanza” (suona senz’altro meglio di: aborto, omicidio del concepito, infanticidio) in Italia. Da allora fino ad oggi, sono stati soppressi con la benedizione della legge oltre 5 milioni di vite umane. Proprio di questo si tratta. A livello mondiale siamo di fronte al genocidio più grande della storia. Ci si potrebbe chiedere come mai siamo arrivati a questo punto. Potremmo individuare molti fattori morali, culturali e psicologici ma ci sembra interessante evidenziarne uno, particolarmente importante per le sue implicazioni in ambiti anche diversi da quello dell’aborto: si tratta del diffuso vizio del legislatore di comportarsi come se fosse sciolto da ogni regola superiore, come se potesse fare astrazione della realtà, anzi, come se creasse lui stesso la realtà. In poche parole, la perversa abitudine del legislatore che vuole farsi uguale a Dio.
È tipica del positivismo giuridico quella concezione secondo la quale la legge naturale o divina sarebbero frutto della fantasia degli uomini o almeno irrilevanti sul piano del diritto. Così il diritto non sarebbe “ars boni et aequi” ma dipenderebbe dalla pura volontà o capriccio del legislatore. La legge potrebbe di per sé, secondo la celebre “dottrina avalutativa del diritto” del positivista Kelsen, avere qualsiasi contenuto anche apparentemente (o evidentemente) ingiusto. Tale filosofia positivista del diritto ha ispirato sistemi giuridici totalitari come il comunismo e il nazismo ma resta ancora oggi un principio implicito in tutti gli ordinamenti che pretendono di definire e disciplinare realtà ed istituti indipendentemente e contro la legge naturale. La realtà italiana ed europea ci offre numerosi esempi: il matrimonio non sarebbe più l’unione tra uomo e donna, né la famiglia implicherebbe una siffatta unione. Che si tratti di una relazione tra due uomini o due donne poco importa, la volontà sovrana del legislatore illuminato estende anche a queste realtà la definizione di “matrimonio” o di “famiglia”. E tra poco, perché non ammettere relazioni tra un uomo e più donne come nei paesi islamici, o viceversa tra una donna e più uomini, o tra più uomini e più donne? Basta, in fin dei conti, che il legislatore lo voglia.
Lo stesso discorso si applica al problema del riconoscimento dei diritti della persona. Non importa se l’evidenza naturale, biologica, genetica e filosofica ti qualifica come persona: “io non voglio che tu sia persona”, dice il legislatore, e, come per magia, ogni diritto, anche il più fondamentale, sparisce. Oppure: “tu non sei ancora persona. Persona diventerai quando lo decido io”. Così, se diamo un’occhiata alle scelte alquanto arbitrarie delle legislazioni nazionali, scopriamo un panorama assai vario, incoerente e contraddittorio: per il legislatore italiano la “vita umana” inizierebbe dopo 13 settimane dal concepimento (o almeno al concepito viene allora riconosciuta una tutela più vicina a quella concessa alla persona); secondo il legislatore francese, la persona appare dopo 10 settimane; 20 settimane in Svezia, 24 in Gran Bretagna, e, negli Stati Uniti, 24 settimane a New York e 16 a Washington e chi più ne ha più ne metta. Le cose sono due: o l’essere umano in una certa fase della sua esistenza è sostanzialmente diverso a seconda del luogo in cui nasce (curiosa forma di razzismo), oppure gli stati decidono arbitrariamente quando un individuo acquista la qualità di persona, negando i diritti fondamentali a chi è già oggettivamente persona.
L’atteggiamento del legislatore di oggi non è molto diverso da quello tenuto dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1857, quando con storica sentenza stabilì che “i negri, a norma delle leggi civili, non sono persone […] non hanno alcun diritto o privilegio tranne quelli che preferisce loro concedere chi detiene il potere e il governo […] i negri sono tanto inferiori da non avere alcun diritto che l’uomo bianco sia tenuto a rispettare”. Immagino che nessuno Stato contemporaneo esiterebbe a condannare questa sentenza. Eppure l’atteggiamento e i principi che ispirano le legislazioni abortiste sono esattamente gli stessi: persona e titolare di diritti non è chi è oggettivamente e naturalmente tale (secondo criteri biologici, genetici, meta-giuridici) ma persona è chi il legislatore decide sia tale. Le diverse legislazioni sceglieranno un momento tra il concepimento e la nascita, in modo quanto meno incerto ed arbitrario, nel quale si compirebbe il miracolo del passaggio dal non-umano all’umano. Per cui alla mezza notte del novantesimo o centesimo o centoquarantesimo giorno dal concepimento (e perché mai sempre “dal concepimento”?) apparirebbe qualcosa di sostanzialmente nuovo e diverso da quello che c’era prima. Una tale discontinuità nello sviluppo del feto è pura fantasia. In realtà dal momento del concepimento fino al momento della morte siamo di fronte allo stesso individuo che, autonomamente (cioè secondo leggi proprie) e grazie ad uno sviluppo continuo, esplica gradualmente tutte le potenzialità (alcune delle quali saranno esplicate solo con la pubertà) contenute in un codice genetico che possiede da quel primo momento e che lo qualifica indubitabilmente come appartenente alla specie umana.
È assurda quindi la pretesa di legiferare come se non esistessero realtà e regole naturali che vincolino anche lo Stato: altrimenti ogni abuso diventa possibile e la forza del diritto diviene diritto della forza. La legge naturale dà forza e senso alla legge positiva e le assegna un limite aldilà del quale, come dice San Tommaso, la legge umana si corrompe: la legge che legalizza l’aborto, contraddicendo il diritto naturale, decade dalla natura stessa di legge. Solo la dottrina del diritto naturale può salvare la legge dalla barbarie e la persona dalla morte.
Alessandro Fiore