20 aprile 2012

Carla e l' "after day abortion"

In merito alla tragedia dell'aborto è stato scritto negli ultimi trent'anni di tutto e di più e, soprattutto, da parte di penne ben più autorevoli di quella della vostra amica. Non ci sono dubbi che per i cattolici esso rappresenti la soppressione premeditata di un essere umano, anche se per molti cattolici "adulti" non si tratterebbe di omicidio (ma di che cosa, allora?) mentre per i sostenitori si tratterebbe di un diritto inalienabile della donna, comprendente anche il potere insindacabile di escludere il padre del bambino da qualsiasi decisione in merito.

La vostra amica cattolica "bambina" ricorda di aver partecipato, negli anni '70 del secolo scorso, a un acceso dibattito di matrice femminista condotto da alcune note personalità che ancora oggi siedono in Parlamento nel quale, alla sua lapalissiana obiezione : <<Il feto ha vita umana perché è frutto dell'incontro tra lo spermatozoo di un uomo e l'ovulo di una donna, perciò l'aborto volontario non può non essere considerato omicidio>>, una nota esponente del movimento abortista rispose disinvoltamente: <<Ma certo, lo sappiamo tutti che è vita umana! Ma la donna ha il diritto di rifiutare una maternità non voluta! >>. Qualche tempo dopo, la stessa signora dichiarava in un'intervista che, nel solo anno 1975, il suo movimento aveva praticato oltre diecimila aborti clandestini, servendosi anche di apparecchi e contenitori rudimentali, <<come pompe da biciclette e vecchi vasi di marmellata che funzionavano benissimo lo stesso (per raccogliere il feto estratto, n.d.r.) e, in più, servivano a far fare una risata alle donne che abortivano, sdrammatizzando l'evento>>*1. La vostra amica comprese allora che stava iniziando una triste deriva che avrebbe portato l'umanità verso mete oscure di cui non si potevano ancora intravedere gli sviluppi. O meglio, col senno di poi si sarebbero potuti benissimo indovinare: si sarebbe arrivati all'universale accettazione dell'eutanasia e alle varie forme di procreazione medicalmente assistita con eliminazione degli embrioni ritenuti inutili, nella raggiunta convinzione filosofica, anche se male argomentata, che la vita umana sia manipolabile a piacimento da parte di chi ritiene di averne il potere, laddove non sussista (o sia cessata) l'autocoscienza del soggetto interessato, sia esso feto, o neonato, o paziente in stato vegetativo o comatoso.

Era dal 1978 - quando entrò in vigore la legge n. 194 del 22 maggio - che la vostra amica Carla, da cattolica "bambina " quale è, si domandava come mai il legislatore - nel dare il via libera a quell'abominio che, con gentile eufemismo, fu chiamato IVG (interruzione volontaria della gravidanza) quasi a nasconderne la vera natura sotto un' elegante perifrasi - abbia limitato questa pratica nefanda ai primi novanta giorni di gestazione, invece di estenderla a tutti i nove mesi (dato che, per così dire, aveva già le mani in pasta) e a consentire addirittura l'infanticidio, quando il neonato si fosse rivelato malato, o portatore di handicap oppure, più sbrigativamente, quando la madre avesse cambiato idea circa la sua vocazione alla maternità. Infatti tra le ragioni che vengono addotte più frequentemente dai fautori dell'aborto a sostegno della sua liceità, sia giuridica che morale, c'è la verità inoppugnabile che il feto non ha vita di relazione né coscienza di sé, perciò essi sostengono che la vita del "prodotto del concepimento" (altro asettico eufemismo che la dice lunga su questa aberrante teoria antropologica, perché assimila un essere umano a un prodotto industriale) non sia vita umana a pieno titolo, degna come tale di tutela giuridica. Il feto, insomma, avrebbe all'incirca la stessa natura ontologica degli animali e delle piante e perciò non sarebbe persona in senso giuridico e filosofico. E infatti, come negare che esso sia incapace di interagire con l'ambiente, anche se autorevoli pareri scientifici sostengono che sarebbe in grado riconoscere la voce della madre (ma, ovviamente, questa teoria non viene presa in considerazione dai suoi sostenitori)? Il feto, oltretutto, è invisibile, perché rinchiuso nel ventre materno, non si sa se una volta nato sarà bello o brutto e, fino a pochi anni fa, non si poteva neppure sapere se era maschio o femmina, sano o malato.

Però la sua condizione assomiglia molto a quello del neonato nei primissimi giorni dopo la nascita. Neppure quest'ultimo ha coscienza di sé, anche se lo possiamo ben vedere e "sentire", anche se può reclamare a gran voce la sua pappa e se spesso di notte turba il sonno dei genitori. Neppure il neonato sa chi è, se è maschio o femmina, se è sano o malato. Allora la vostra amica - nel tentativo di capire la logica perversa che anima in tutto il mondo coloro che reputano l'aborto un'espressione di civiltà e un diritto inalienabile della donna - ha spesso domandato provocatoriamente ai suoi amici laicisti perché non venisse consentito anche l'infanticidio, quando il figlio fosse indesiderato, data la scarsissima differenza sostanziale tra i due casi. Del resto, anche nella città di Sparta, nella civilissima antica Grecia, i neonati malati o malformati venivano gettati dall'alto del monte Taigeto. In questo caso una logica - sia pur disumana - sussisteva, perché gli Spartani, popolo guerriero per eccellenza, non potevano permettersi di allevare figli meno che perfetti fisicamente. La vostra amica non ha mai ottenuto, né dai suoi amici, né dai mass-media, una seria risposta consequenziale a questa provocatoria domanda, tanto da farle pensare che il semplice fatto di poter stringere tra le proprie braccia il neonato, di poter sentire i suoi vagiti, di poter vedere se somiglia a mamma o a papà, tenesse ancora accesa nel mondo quella minima fiammella di umanità che gli risparmiasse un destino così triste e crudele.

Questa illusione, però, è durata solo pochi anni, perché si trattava di una spiegazione troppo semplicistica e ben poco scientifica agli occhi del "mondo". Il razionale e relativista pensiero post-moderno le ha dato un energico colpo di spugna. Un'autorevole rivista australiana, The Journal of Medical Ethics ha pubblicato un articolo dal titolo After-birth abortion: why should the baby live? che ha dato una perfetta e logica risposta alla provocatoria ma, in fondo, ingenua domanda della vostra amica: sia il feto che il neonato sono persone solo in potenza, dal momento che fino ad almeno due settimane dopo la nascita essi non presentano alcun elemento di autocoscienza, perciò l'uccisione di un neonato potrebbe essere eticamente ammissibile in tutte le circostanze in cui lo sarebbe l'aborto. Queste circostanze potrebbero essere, non solo l'imperfezione fisica del bambino, ma anche le difficoltà economiche della famiglia. E ancora: se i costi sociali, economici e psicologici sono per i potenziali genitori valide ragioni di aborto, anche se il feto è sano; se lo status morale del neonato è lo stesso del feto e se non ha alcun valore morale il fatto di essere persona solo in potenza e non in atto, allora le stesse ragioni che giustificano l'aborto dovrebbero giustificare anche l'uccisione della persona quando è allo stadio di un neonato. Quanto al limite di tempo entro il quale l'after-birth abortion sarebbe lecito, esso verrebbe individuato in due settimane dalla nascita, oltre le quali l'infanticidio non sarebbe più consentito (ma davvero!...).
Che dire? E' bastato aspettare pochi anni e l'interrogativo della vostra amica ha trovato una risposta perfettamente logica, perché la nefasta abitudine all'aborto - diffusasi in tutto il mondo a causa delle relative leggi che lo consentono, spacciandolo per un diritto umano - ha dato i suoi tristi frutti banalizzando un tragico evento che dovrebbe essere considerato vero e proprio omicidio.
L'articolo in questione ha suscitato una valanga di commenti di segno opposto, da chi evoca (giustamente) gli echi del Terzo Reich, a chi sostiene che l'idea che il bambino sia una persona non è scientifica ma è dovuta soltanto all'influenza della tradizione ebraico - cristiana, a chi osserva cinicamente che il clamore da esso suscitato in tutto il mondo faciliterà la carriera universitaria dei suoi autori.

Ma essi, a quanto pare, non sono stati i primi ad avanzare quell'agghiacciante teoria: essa era già stata formulata anni fa dal filosofo australiano Peter Singer, accanito animalista e avversario dello specismo, cioè della differenziazione degli esseri viventi sulla base dell'appartenenza di specie, come il razzismo discrimina in base alla razza*2. Ebbene, questo sapiente professore - nato a Melbourne nel 1946 - è figlio di ebrei viennesi emigrati in Australia perché, verosimilmente, sfuggiti o sopravvissuti alla shoà. Avrà mai pensato il Nostro che, se fosse nato in Europa appena pochi anni prima, forse sarebbe stato soppresso anche lui da neonato nelle camere a gas dei nazisti? Dopotutto essendo stato anche lui un neonato privo di autocoscienza e inutile, in quanto ebreo, agli occhi dell'ordine sociale auspicato dai nazisti, il danno non sarebbe stato poi tanto grave e tra specismo e razzismo le differenze non sono poi molte...
Però è curioso osservare come gli autori dell'articolo in questione abbiano sempre usato l'ambigua espressione eufemistica "aborto post-nascita" , che è palesemente una contraddizione in termini. Se volevano convincere i loro lettori che non c'è alcuna differenza tra l'uccisione dei neonati e l'interruzione della gravidanza avrebbero dovuto usare i più diretti termini infanticide o child - murderer e sarebbero stati più onesti intellettualmente. Ma evidentemente non ne hanno avuto il coraggio o forse anche a loro sarebbe sembrata una bestemmia.

Carla D'Agostino Ungaretti

NOTE
1) Cfr. "OGGI" 29.7.1976.
2) Cfr. CORRIERE DELLA SERA, "La lettura" 11.3.2012, pag. 8.